giovedì 17 maggio 2018

Il dramma di Gaza è responsabilità dei palestinesi


di Bret Stephens*

Per la terza volta in due settimane, i palestinesi di Gaza hanno dato fuoco al valico di Kerem Shalom, attraverso il quale giungono da Israele medicine, combustibili e altri aiuti umanitari essenziali. Presto leggeremo diffusamente del dramma di Gaza. Ma dovremmo compiere lo sforzo di non dimenticare che gli autori di questa tragedia sono al contempo le presunte vittime.
C’è un schema - fatti del male, e incolpa l’avversario – che necessita di denuncia nell’oceano di cecità morale e critica storica senza fondamento, a cui Israele è sistematicamente sottoposto ogni volta che si difende dai violenti assalti palestinesi.
Nel 1970, Israele istituì una zona industriale lungo il confine con la Striscia di Gaza (all’epoca, lo stato ebraico entrò in possesso della Striscia, in conseguenza della Guerra dei Sei Giorni che deflagrò all’indomani dell’aggressione dell’Egitto di Nasser, che fino al 1967 quel territorio possedeva, NdT), allo scopo di promuovere la  cooperazione con la Striscia, creando posti di lavoro a favore dei palestinesi. È stata smantellata nel 2004 dopo innumerevoli attacchi terroristici, che hanno provocato 11 vittime fra gli israeliani.
Nel 2005 donatori ebrei americani hanno sborsato oltre 14 milioni di dollari, a favore dei proprietari delle serre che coloravano la Striscia, fino allo sgombero unilaterale disposto da Sharon. I palestinesi hanno devastato decine di queste serre il giorno successivo all’abbandono dei coloni israeliani.

Nel 2007 Hamas ha assunto il controllo di Gaza al termine di un sanguinoso colpo di stato ai danni della fazione rivale del Fatah. Da allora, Hamas, Jihad Islamica e altri gruppi terroristici che infestano la Striscia di Gaza, hanno sparato quasi 10.000 razzi e colpi di mortaio all’indirizzo di Israele: tutto mentre allo stesso tempo denunciavano il «blocco economico» consiste nel rifiuto dello stato ebraico di alimentare le fauci che intendevano azzannarlo (anche l’Egitto e la stessa Autorità Palestinese praticano una più intensa forma di blocco economico, senza subire alcuna censura internazionale).
Nel 2014 Israele ha scoperto che Hamas ha costruito 32 tunnel sotto il confine di Gaza, allo scopo di sequestrare e uccidere quanti più israeliani possibile: «la costruzione di un tunnel richiede materiale da costruzione per cui necessitano non meno di 350 camion: abbastanza per costruire 86 case, sette moschee, sei scuole o 19 cliniche», fu la denuncia dell’epoca del Wall Street Journal. Costo stimato: 90 milioni di dollari. Questo spiega appieno la miseria imperante a Gaza.
Questo ci conduce al grottesco spettacolo a cui si assiste lungo il confine di Gaza da alcune settimane a questa parte: in cui migliaia di palestinesi cercano di forzare il confine e di penetrare in Israele. Quale sarebbe lo scopo della ventilata “grande marcia del ritorno”?
Non è un mistero per nessuno. Questa settimana, il Times ha pubblicato un editoriale a cura di Ahmed Abu Artema, uno degli organizzatori della marcia, che così si è espresso: «siamo determinati a proseguire con queste iniziative, fino a quando Israele riconoscerà la nostra rivendicazione di tornare alle nostre case, tornando sulle terre da cui siamo stati espulsi». Le sue rivendicazioni non si esauriscono ai territori contesi secondo l’orientamento occidentale, vale a dire quelli conseguiti da Gerusalemme all’indomani della Guerra dei Sei Giorni. No, questo signore mette in discussione la stessa esistenza di Israele, nella sua interezza. Si può vagamente condividere questa linea di pensiero, a condizione di accettare che ciò implichi la cancellazione dello Stato ebraico.
Si noti il persistere dello schema già proposto: si invoca la distruzione di Israele, salvo implorare pietà e aiuto qualora il piano non dovesse funzionare.

Il mondo chiede ora a Gerusalemme di rendere conto di ogni proiettile sparato nei confronti dei facinorosi, senza offrire alcuna soluzione praticabile alla crisi. Ma dov’era l’indignazione quando Hamas costringeva i palestinesi a muovere verso la recinzione, malgrado le ripetute esortazioni di Israele a desistere da questo piano? Nessuno si scandalizza nell’apprendere che gli organizzatori hanno letteralmente spinto le donne in cima ai disordini perché, come riportato, «i soldati israeliani non sparano a donne e bambini»? che gli organizzatori hanno dotati di tenaglie e tronchesi bambini di appena 7 anni? O che i disordini sono cessati quando Israele ha avvisato i leader di Hamas, che preferiscono nascondersi negli ospedali di Gaza, che la loro vita era minacciata?
Ovunque nel mondo, questo comportamento sarebbe stato stigmatizzato e condannato come autolesionista, vile e cinico. Il mistero del Medio Oriente è rappresentato dall’esenzione per troppo tempo concessa ai palestinesi, da un ordinario giudizio morale. Come è possibile che schiere di sedicenti progressisti stringano amicizie con gli assassini, misogini e omofobi di Hamas? Perché non vedono che, per stessa ammissione dell’organizzazione terroristica, 50 dei 62 manifestanti che lunedì hanno perso la vita, erano membri della stessa Hamas? Perché negano ad Israele il diritto a difendersi all’interno dei confini che essi stessi hanno indicato a Gerusalemme?
Perché nulla è richiesto ai palestinesi, tutto è loro perdonato, mentre tutto è imposto agli israeliani, e nulla è loro condonato?

È una domanda a cui si ottiene facile risposta. Nel frattempo, vale la pena di considerare il danno che l’indulgenza occidentale ha prodotto per le aspirazioni palestinesi. Nessuna società decente potrà mai emergere dalla cultura del vittimismo, della violenza e del fatalismo, simboleggiata da queste manifestazioni. Nessun governo palestinese potrà mai emergere se la comunità internazionale continua a mostrarsi indulgente nei confronti del regime autocratico, corrotto e antisemita dell’Autorità palestinese, mancando di condannare con convinzione i criminali despoti di Hamas. E nessuna economia palestinese fiorirà, a fronte di questi atti di autolesionismo e provocazione distruttrice.
Se i palestinesi vogliono davvero costruire una nazione, ricca e prosperosa, farebbero bene a prendere esempio dai loro vicini di casa. Iniziando ad accantonare il proposito di eliminarli.

* Titolo originale: Gaza’s Miseries Have Palestinian Authors
su The New York Times.

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