domenica 17 settembre 2017

L'inferno delle carceri palestinesi


Era come in un film dell'orrore. Legato al soffitto. Il suo inquisitore, palestinese, lo percuoteva sulle gambe. Gli hanno negato il cibo per un lungo arco di tempo, e quando gliel'hanno concesso, era a mala pena mangiabile.
Quando Sami, un palestinese di Nablus (nome e origine sono di fantasia per motivi di sicurezza) si addormentava o impiegava più di un minuto in bagno, i carcerieri gli gettavano acqua in faccia. Ed era acqua "buona".
Quando volevano fare sul serio, gli gettavano acqua bollente sul petto.
I segni sul corpo degli interrogatori subiti sono ora meno evidenti rispetto a quindici anni fa. Ma molte cicatrici sono ancora visibili.
Prossimo ai 40 anni, Sami di recente ha rivelato la sua storia al Jerusalem Post. Oscilla fra la depressione e un inquietante distacco del corpo dagli eventi: residui evidenti di sopravvivenza ad un trauma estremo.
Quando cinque agenti dei servizi segreti palestinesi lo prelevarono a forza dalla sua abitazione, in un pomeriggio ai tempi della seconda intifada, circa quindici anni fa, Sami era un giovane. Fu l'ultimo dei suoi giorni normali.
«Si sono presi tutta la mia vita. Non mi sono più sposato. Non posso sottoscrivere contratti di lavoro, che non siano lavoretti di poco conto. Faccio fatica a parlare e precipito spesso nella depressione». Sami è uno dei 51 palestinesi arrestati dall'Autorità Palestinese su sospetto di collaborazione con Israele; a cui la Corte distrettuale di Gerusalemme, in una sentenza dello scorso 19 luglio, ha confermato la legittimità di trascinare l'ANP in una causa in Israele. La decisione giunge dopo aver raccolto per anni diverse testimonianze da parte di cittadini palestinesi.
Secondo la giustizia israeliana, se si tratta di sventare attacchi terroristici ai danni degli israeliani, l'ANP è obbligata dagli Accordi di Oslo a collaborare in tal senso, e non può trattare i suoi cittadini come criminali; tantomeno torturarli.
La maggioranza delle vittime sarà chiamata a testimoniare davanti alla corte, affinché questa possa calcolare l'ammontare degli indennizzi dovuti, sebbene sia facile prevedere che l'ANP si opporrà, negando gli addebiti mossigli.
Una delle vittime delle torture ha avanzato richieste di risarcimento per 74 milioni di shekel (pari a quasi 18 milioni di euro, NdT), e il totale dei risarcimenti è stimato fra i 500 e i 700 milioni di NIS (al cambio attuale, fra 120 e 165 milioni di euro, NdT), con l'entità dell'indennizzo che varia a seconda della brutalità e persistenza della tortura inferta.

Ma i casi come quello di Sami hanno anche risvolti personali.
C'è l'episodio della sua visita ad un "dentista", per curare il suo mal di denti. Parla Sami: «avevo mal di denti. Mi condussero da un dottore, il quale si informò sul mio conto, e gli rivelarono che avrei collaborato con Israele. Sicché il dentista mi estrasse altri denti, tranne quello che mi duoleva. E questo, mi disse, perché avevo aiutato Israele.
Dopo quell'episodio tentai il suicidio. Era tutto contro di me. Tentai di dissanguarmi con delle pietre».
Poi c'è la storia di "Dani", un uomo un po' più anziano di Sami. Dani fu prelevato dalle guardie dell'ANP mentre andava a lavorare in Israele: anche in questo caso all'inizio della seconda ondata di attacchi palestinesi ai danni delle persone israeliane.
A differenza della rassegnata passività di Sami, Dani tenta di reagire, di non lasciarsi andare. Afferma di ignorare il luogo della sua prima detenzione, poiché fu bendato e coperto in volto da un panno inzuppato di orina. Non ha visto la luce del sole per sei giorni, non sapeva se fosse il giorno o la notte, rimase digiuno per diverso tempo e quando aveva del cibo, era immangiabile. Dormiva per terra nella sua cella e lì era costretto ad esplatere i suoi bisogni fisiologici. Lo costringevano a subire enormi sbalzi termici, fino a quando ad un certo punto perse conoscenza.
I suoi carcerieri gli hanno provocato delle ustioni permanenti sul braccio sinistro. Gli chiedono come si sia procurato quelle bruciature: «come potrei sapere se mi hanno ustionato con una forchetta o un coltello rovente? era incappucciato e non avevo idea di cosa mi circondasse!»
Ad un certo punto Dani reagì, e rivolgendosi ai suoi aguzzini esclamò: «cosa volete da me? volete che firmi una dichiarazione in cui ammetta di aver collaborato con lo Shin Bet (il servizio di sicurezza interna israeliano, NdT). Va bene, lo farò. Sottoscriverò anche che avrò venduto il Monte del Tempio, e che ho collaborato con Israele, se è questo che volete». Lo colpirono ripetutamente sui denti e sui testicoli. Adesso Dani ha problemi di minzione.
Attualmente vive in una località nel nord di Israele. Alcune vittime delle torture palestinesi, come Dani, hanno ottenuto un impiego dopo un periodo di riabilitazione. Altri, come Sami, sono ormai inabili al lavoro.
Arduo accertare se queste vittime alla fine abbiano davvero collaborato con lo Shin Bet, e se le dichiarazioni rese ai carcerieri palestinesi siano autentiche. Dani lo ha fatto, e quando gli è stato rinfacciato il tradimento del suo popolo, ha risposto: «sono un essere umano. Non sopporto lo spargimento di sangue. Se qualcuno fa del male, io reagisco: voglio soltanto salvare vite. Non siete dio che può decidere di punire la gente».
Afferma di amare Israele, perché meritevole di fiducia e riconoscente nei confronti di chi ne apprezza la collaborazione. Dani ora collabora con lo Shin Bet in seguito all'ostilità subita ad opera di altri palestinesi. Ora ha un lavoro, si guadagna da vivere e può mantenere la sua famiglia perché «quando fai una buona azione, dio ti viene in soccorso».

Fonte:
Palestinians reveal PA torture to JPost, seek justice in Israeli courts
su Jerusalem Post del 13 settembre 2017.

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