martedì 28 marzo 2017

Uno stato palestinese esiste già

Tralasciando di fatto la Striscia di Gaza, de facto stato palestinese, se non fosse per la natura violenta del potere assunto da Hamas con il colpo di Stato del 2007 (la Conferenza di Montevideo nega il riconoscimento statuale alle entità bellicose nei confronti degli stati confinanti); esiste già uno stato palestinese: Abu Mazen si dia pace.
Tutti sanno che l'80% dei sudditi di Giordania si professano "palestinesi". Facciamo però un passo indietro: Rania Al-Yassin è la moglie dell'attuale re di Giordania, Abdullah. È nata in Kuwait, ma i suoi genitori sono nati a Tulkarm, nell'odierno Israele. Questo la porta a definirsi palestinese. Facciamo finta che sia così.
Ciò vuol dire che suo figlio, il principe ereditario Hussein bin Abdullah, è per metà palestinese. A meno che si accetti la definizione originale fornita dall'UNRWA, secondo cui la discendenza si trasmette al 100%: nel qual caso il figlio di Abdullah sarebbe del tutto palestinese.

venerdì 24 marzo 2017

Il Walled Off Hotel conferma che la "Palestina" è una patacca

Continua la buffa vicenda dell'albergo voluto e finanziato da Bansky a Betlemme, fra l'entusiasmo iniziale e la cautela successiva dei filopalestinesi. Su Facebook e qui su Blogspot abbiamo immediatamente segnalato come il costoso albergo dell'eccentrico artista, costituiva un clamoroso autogol per la "causa". Non a caso nei forum antiisraeliani si leggono parole di fuoco all'indirizzo della struttura ricettiva; l'ennesima, peraltro, nei territori palestinesi. Il recente resoconto fotografico di Daily Beast aggiunge ulteriore benzina sul fuoco, rivelando testimonianze visive che abbiamo già avuto modo di apprezzare negli anni passati; è solo che non era mai capitato di scorgere, nel museo di una istituzione sulla carta filopalestinese, una chiara prova della presenza millenaria del popolo ebraico in quella che oggi i benpensanti chiamano "Palestina".
La Palestina è sempre esistita: perlomeno da quando Adriano così ribattezzò ("Syria Palaestina"), in spregio agli ebrei che la popolavano, nel 135 dopo Cristo, le province giudaiche dell'impero romano. Le stesse disposizioni cambiarono il nome di Gerusalemme in Aelia Capitolina, sancendo il divieto per il popolo ebraico di risiedere nella Capitale Eterna.
Ma torniamo al nostro simpatico alberghetto, e lasciamo la parola all'imprescindibile
Elder of Ziyon, del cui resoconto ci prendiamo la licenza di tradurre.

Diamo dunque un'occhiata a questi famosi poster ospitati nel Museo Bansky palestinese.

lunedì 13 marzo 2017

Gaza adesso esporta le kippah: agli israeliani!

Cosa c'è di più gustoso di un fallimento epico del movimento internazionale che cerca in tutti i modi di screditare, danneggiare e colpire lo stato ebraico?
Uno delle consuetudini più simpatiche, per chi visita per la prima volta Israele, consiste nell'acquistare una kippah, il famoso copricapo ebraico. Le kippot sono disponibili ovunque e per tutte le tasche. Nei luoghi sacri, come il Muro Occidentale di Gerusalemme, sono prestate gratuitamente in occasione della visita; ma vale la pena di comprarne una nei tanti negozietti dei vicoli della capitale per portarla a casa come ricordo di questa straordinaria esperienza.
Succede talvolta che la produzione domestica è insufficiente a soddisfare la domanda; sicché Gerusalemme si rivolge all'estero, da cui importa una parte considerevole delle kippah. Fin qui nulla di strano, se non fosse che una parte di esse proviene dalla vicina Striscia di Gaza. Proprio così: in un campo profughi di al-Shati, assurto due anni fa agli onori della cronaca, le macchine lavorano incessantemente per produrre kippot che saranno vendute al vicino Israele.

venerdì 10 marzo 2017

Perché le compagnie aeree ignorano Israele?


È quello che si chiede una volta tanto il settimanale britannico The Economist, nell'ultimo numero. In una riflessione firmata da "Gulliver", datata 8 marzo, il periodico rileva una consuetudine radicata fra le compagnie aeree mondiali: alcune mostrano sulla mappa delle rotte praticate tutti gli stati, anche i più microscopici ed ignoti; altre, soltanto gli stati raggiunti come destinazione dei voli. C'è poi, ignorata dai più, una terza tipologia di vettori aerei: quelli che ignorano deliberatamente uno Stato, prescindendo dal fatto che esso sia sorvolato quando non addirittura toccato dalle rotte. Si tratta, manco a dirlo, di Israele.
L'Economist attinge da un nuovo studio, dal titolo Discriminatory Product Differentiation: The Case of Israel’s Omission from Airline Route Maps, pubblicato a febbraio dall'Università del Minnesota, e basato su un campione di ben 111 compagnie aree. Escludendo quelle del Medio Oriente, le compagnie aeree si muovono come indicato in precedenza: o menzionano sulle mappe Israele o, se non lo fanno, è perché lo scalo internazionale Ben Gurion di Tel Aviv non è raggiunto.

mercoledì 8 marzo 2017

L'autogol del Walled Off Hotel

Sapete perché la faccenda del Walled Off Hotel di Betlemme è stata frettolosamente accantonata dai filopalestinesi?
perché è spuntata una targa, apposta nei pressi dell'ingresso dell'albergo, che chiarisce la filosofia della struttura ricettiva, di cui godranno nei mesi a venire i suoi facoltosi clienti.
Si chiarisce che «non è il momento opportuno per prendere posizione», che i palestinesi «vivono in condizioni disagiate» (un bel passo in avanti rispetto alla retorica pelosa della «prigione a cielo aperto», a cui evidentemente non crede più nessuno), non vi è cenno ad alcuna occupazione.
Si parla di West Bank, suscitando l'indifferenza dei giordani, che quella sponda del fiume l'hanno abbandonata nel 1967 e non intendono più rioccuparla; la perplessità degli ebrei, che da millenni sono abituati a leggere sulle mappe i nomi di Giudea e Samaria, in luogo di una definizione adottata per 19 anni; e l'ostilità degli israelofobi, che non leggono il magico ma vuoto nome di "Palestina".

lunedì 6 marzo 2017

La tragedia del BDS: dilaga la disoccupazione fra i palestinesi


di Eden Gorodischer*

Sul volto di Haytam lo sconcerto è evidente. Si capisce benissimo che sta cercando di metabolizzare ciò che ha appena appreso. Per Haytam l'occupazione è tutto: gli consente di vivere e di sostenere i suoi bambini. Senza di esso, non riesce ad immaginare che ne sarebbe della sua famiglia. Haytam è palestinese, e gli sono stati appena comunicati gli sforzi profusi per sabotare fino alla chiusura la fabbrica in cui lavora, situata nella cittadina israeliana di Ariel.
A minacciare di chiusura questa azienda non sono i proprietari. Ne' tantomeno le autorità. L'incitamento in tal senso giunge dagli Stati Uniti, dove da una diecina d'anni in alcuni università studenti e docenti antiisraeliani fanno pressione affinché sia sospesa la collaborazione con gli atenei israeliani. Dicono che lo fanno per assecondare le richieste della società palestinese. Mentre lo rivelo ad Haytam, scorgo dallo sgomento nei suoi occhi che la rivendicazione è grottesca.
Gli sforzi protesi all'isolamento culturale e soprattutto economico dello Stato di Israele non hanno fatto proseliti, negli Stati Uniti. Malgrado quanto si affanni a precisare la Palestine Solidarity Alliance (PSA) e la Students for Justice in Palestine (SJP), queste iniziative hanno lasciato indifferenti i campus americani. A dirla tutta, nessuna facoltà si è mai sognata di interrompere gli investimenti nelle aziende israeliane. Nel frattempo, qui all'Hunter College di New York il consiglio studentesco riceve pressioni affinché voti a favore di una normativa che metterebbe al bando Israele nelle aule dell'università. Se il provvedimento passasse, l'Hunter sarebbe un luogo poco sicuro per chiunque sostenga Israele e spero che un giorno arabi e israeliani possano lavorare fianco a fianco: nelle industrie di Ariel, come in tutta l'area.

Il boicottaggio di Israele non giova infatti ai palestinesi. quando mariti e padri restano a casa, senza lavoro, le famiglie palestinesi come quella di Haytam ne risentono enormemente. Si tratta di un caso tutt'altro che isolato: ci sono molte aziende israeliane che impiegano palestinesi in lavori qualificati, assicurando a tutti eque condizioni a prescindere dal credo religioso o dall'orientamento politico. In media, i palestinesi che lavorano per aziende israeliane portano a casa una remunerazione pari al doppio rispetto ai più sfortunati che lavorano per aziende arabe. Spesso i salari sono persino superiori a quelli dei colleghi israeliani della medesima azienda. Si stima che 120 mila palestinesi lavorano per aziende israeliana, e il governo di Gerusalemme è impegnato affinché la forza lavoro cresca fino a 300 mila unità.
Se gli atti di boicottaggio economico posti in essere dal movimento BDS avessero successo, tutta questa gente resterebbe senza lavoro, gettando sul lastrico centinaia di migliaia di famiglie. Per molti, inclusi gli studenti qui dell'Hunter College, Israele non è soltanto un puntino sull'atlante. È la propria casa. È un luogo che ospita pacificamente cristiani e musulmani che godono di diritti civili come in nessun altro posto del Medio Oriente.
Gli sforzi di queste organizzazioni studentesche non arrecano giustizia alla società palestinese: colpire Israele danneggia soltanto i palestinesi. Non c'è nulla di filopalestinese in questi movimenti.
Io mi batto per i diritti umani qui e in tutto il mondo. Mi impegno a fondo affinché tutti abbiano le stesse opportunità. E sono perfettamente consapevole che questo tipo di provvedimenti non risolverà il conflitto in Medio Oriente: creerà soltanto ulteriori tensioni nelle aule universitarie.

* Studentessa di Psicologia all'Huter College
Fonte: The Observer.

venerdì 3 marzo 2017

Fermate quel genocidio!

La popolazione ebraica è scomparsa in tutti gli stati arabi. In Iran nel 1948 c'erano 120.000 ebrei; sono rimasti in poche migliaia. In Marocco, che pur prima dell'avvento nel nazismo ostentava la Stella di David sulla sua bandiera, la popolazione ebraica è stata decimata a 1.500 anime, dalle 260 mila del Dopoguerra. Azzerata la popolazione in Tunisia, in Libia e in tutta l'Africa settentrionale: assoggettata a pulizia etnica dopo la fondazione del moderno Stato di Israele. E dire che si trattava di una minoranza operosa, laboriosa, ben integrata nella società; che di punto in bianco ha dovuto rinunciare ad una nazione, a proprietà, mestieri e professioni, vincoli parentali e affettivi, andando incontro ad un futuro da profugo per cui nessuno ha avvertito l'esigenza umana di creare un'agenzia ad hoc; sulla falsariga di quanto fatto con l'UNRWA per i palestinesi.

mercoledì 1 marzo 2017

Gerusalemme è ebraica da sempre

Il 1917 è un anno cruciale nella travagliata storia di Gerusalemme: appena meno di un secolo fa, la capitale eterna del popolo ebraico era liberata dalle truppe inglesi, che il 10 dicembre 1917 scacciavano l’esercito turco da Gerusalemme, portando la metà meridionale della Palestina sotto il controllo britannico. Alla fuga dei turchi, il generale Allenby, comandante delle forze inglesi, entrava a Gerusalemme e rilasciava una proclamazione in inglese, ebraico ed arabo: l’Inghilterra avrebbe rispettato i diritti di tutti i cittadini, incluse le minoranze.
Ma qual'era la scomposizione della popolazione residente a Gerusalemme, un secolo fa? Ci viene in gradito aiuto un quotidiano dell'epoca, il l'Irish Standard che, nell'edizione del 22 dicembre 1917, così riportava ai suoi lettori: «Gerusalemme ha una popolazione di circa 70.000 persone, di cui i due terzi sono ebrei; il resto della popolazione è composta da cristiani e musulmani, in ragione approssimativamente di due ad uno».