mercoledì 7 maggio 2014

I palestinesi non hanno mai inteso perseguire la pace

I palestinesi non hanno mai avuto alcuna intenzione di discutere seriamente di pace con le controparti israeliane. Malgrado ripetuti incontri ad alti vertici, nonostante l'impegno profuso dalla delegata israeliana Tzivi Livni, e malgrado la febbrile mediazione di John Kerry - che ha irrorato mezzo mondo con l'anidride carbonica profusa nei nove mesi di negoziati; Abu Mazen e soci avevano bene in mente l'obiettivo finale: ottenere quanto più possibile, prima di ritirarsi inesorabilmente dai negoziati, accampando la prima giustificazione valida.
La "politica del salame" - tagliarne una fetta sottile alla volta, fino a farne rimanere poco o niente - ha consegnato a Ramallah diverse diecine di criminali, liberati dalla carceri di Gerusalemme e glorificati al loro ritorno in patria, oltre a molte cambiali in bianco sottoscritte in questi mesi da un ingenuo Occidente. Era puerile credere che l'intesa strategica annunciata fra Al Fatah e gli estremisti di Hamas fosse maturata nel giro di poche ore: quelle successive al rifiuto di Abu Mazen di prolungare i negoziati agli sgoccioli, in cambio della disponibilità israeliana di liberare l'ultima tranche di detenuti. Da buon giocatore di poker, il presidente eletto nove anni fa alla presidenza dell'ANP e mai più sottopostosi al giudizio degli elettori, giocava su due tavoli: ad uno fingeva di discutere con le controparti, cercando di aumentare ad ogni giro la posta per prendere tempo; all'altro concordava l'intesa con gli integralisti islamici che governano col terrore dal 2007 la Striscia di Gaza.
E disponiamo oggi anche di una conferma. Oggi il Times of Israel pubblica il contenuto di una lettera inviata dal governo di Gerusalemme a Stati Uniti, Europa e diversi altri stati al mondo, contenente le prove del sabotaggio del processo di pace, ancor prima del mancato rilascio dell'ultima tranche di detenuti in cambio della disponibilità dell'ANP a sedersi al tavolo. Risulta che il negoziatore capo palestinese, Saeb Erekat, già a marzo aveva pronta una lettera con cui annunciava agli USA la volontà di ritirarsi unilateralmente dai negoziati. Il documento di 65 pagine conteneva una serie di raccomandazioni per iniziative unilaterali di disimpegno dal processo di pace - inclusa l'adesione a trattati e organismi internazionali (poi in buona parte attuata, e la riconciliazione con gli acerrimi nemici di Hamas; e sarebbe stato consegnato ad Abu Mazen addirittura il 9 marzo: ben prima della fine ufficiale dei negoziati (29 aprile), e prima dell'incontro che lo stesso Abu Mazen ha tenuto alla Casa Bianca con Barack Obama. Il quale discuteva di iniziative per rilanciare il dialogo; quando il leader palestinese già studiava la strategia migliore per disimpegnarsene.
Palese la grama figura rimediata da Obama, raggirato anche dal meno autorevole dei capi di stato mediorientali (di fatto non si parla nemmeno di stato;e non di dovrebbe nemeno parlare di capo di stato, dal momento che il mandato è scaduto da oltre cinque anni); e lo scorno subito da Kerry, che fino a pochi giorni fa addossava la responsabilità del fallimento dei negoziati al governo Netanyahu. Come ha scritto oggi un autorevole osservatore, è tempo di realismo: è giunto il momento in cui l'Occidente riconosca che le differenze fra le parti sono profonde ed inconciliabili.

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