domenica 6 aprile 2014

Abbattuto il processo di pace, Abu Mazen tenta il bluff. Ma ci casca solo Kerry...

Benché manchino ancora alcune settimane alla data che sancirà la conclusione dei negoziati fra israeliani e palestinesi - sponda Washington; nessuno crede davvero che il processo di pace possa mai (ri)partire, dopo l'affondamento provocato da Abu Mazen con la decisione di iscrivere l'ANP ad una serie di organismi e trattati internazionali, disattendendo i pre-accordi concordati lo scorso luglio prima di questa ennesima occasione per perdere tempo, e per dis-perdere anidride carbonica nell'atmosfera. Al povero Kerry, frustrato, e smanioso più di apparire finalmente come qualcosa di più del "marito della signora Heinz", che di realmente conseguire un Premio Nobel per la Pace in verità sbiadito da qualche anno; non resta che fare marcia indietro evitando ulteriori figuracce. Mancando anche l'obiettivo minimo di una "pace in Medio Oriente" a cui alla vigilia non credeva nessuno che conosce un pochino le faccende che ruotano attorno al Fiume Giordano. È un nuovo smacco per l'amministrazione Obama - ma questa volta il più scaltro Barack Hussein ha mantenuto una posizione defilata, evitando un diretto coinvolgimento che avrebbe appannato ulteriormente il suo prestigio: dopo il discorso del Cairo che ha aperto le porte al fondamentalismo islamico in Egitto (peraltro mai seriamente aberrato da Obama, il quale al contrario ha reagito con stizza alla defenestrazione di Morsi; e sì che vanta rapporti perlomeno indiretti con l'estremismo sunnita); dopo aver assistito impotente a diversi quanto beffardi varchi della mitica "linea rossa" a Damasco, dove Assad è stato libero di continuare a sterminare i siriani dopo aver "visto" il bluff della Casa Bianca; dopo aver accantonato la linea dura con Teheran, concedendo agli ayatollah la prerogativa di coltivare l'ambizione atomica, coniugando quella massima della diplomazia secondo cui "se non puoi combatterli, unisciti a loro" (ed infatti la Boing è stata autorizzata a vendere parti di ricambio per aerei all'Iran, dietro la vaga garanzia di non impiegarli per finalità militari); dopo aver dovuto prendere atto passivamente dell'annessione della Crimea da parte della Russia di Putin, sfibrando nel frattempo solide alleanze con l'Arabia Saudita, l'Egitto e lo stesso Israele; alla fine la montagna-USA ha cercato di partire il topolino di una "storica" pace fra Israele e palestinesi, dal sapore più simbolico che reale (in Siria sono morti in tre anni il quadruplo di tutti gli arabi periti nei conflitti con Israele dal 1948 in poi), non riuscendo a conseguire nemmeno questo obiettivo minimo.
Dunque ci aspetta una nuova Intifada, come avvenne dopo il ritorno - bisogna dire, trionfale - di Arafat fra la sua gente nel 2000, in seguito all'ennesimo rovesciamento del tavolo di vantaggiosissimi negoziati (per i palestinesi) promossi dall'amministrazione Clinton? è presto per dirlo, ma la sensazione è che Abu Mazen stia cercando di giocare al meglio le sue carte, contando sulla debolezza dell'amministrazione e della diplomazia americane; e bisogna ammettere che ci stia riuscendo molto bene. Ma ha trovato a Gerusalemme nel governo in carica soggetti che potranno rovesciare a suo danno il tentativo in atto; e nel negoziatore ufficiale per Israele - il ministro della Giustiza Tzipi Livni - una persona meno disponibile e accondiscendente di quanto si temesse alla vigilia.


Premesso che non vi sia alcun dubbio circa la responsabilità di Abu Mazen nel deragliamento di questo processo di pace - le intese della vigilia erano ben chiare: i palestinesi rinunciavano a promuovere l'iscrizione ad organismi e la sottoscrizione di trattati internazionali - ci si deve chiedere se mai il presidente decaduto dell'ANP abbia mai aspirato a condurre le trattative su un piano di sincera equità. Nello sbattere la porta in faccia ad israeliani e americani, Abu Mazen ha lasciato la porta socchiusa quel tanto che basta per non indurre il più disperato a piena e definitiva rassegnazione. La stessa telefonata con cui Kerry esortava l'altra sera Abbas ad abortire l'adesione ai 15 trattati e organizzazioni internazionali, rivela il panico del segretario di Stato USA, ansioso più
di chiunque altro di evitare il deragliamento del "processo di pace". Questo vistoso nervosismo ha indotto Abu Mazen ad aumentare la posta, proponendo nuove e irricevibile richieste, e solo per godere del privilegio di disporre dell'attenzione dei suoi negoziatori in una inutile estensione temporale dei negoziati. È legittimo aspettarsi che il governo americano rivolgerà ora tutte le sue
pressioni nei confronti di Gerusalemme, adottando con questa la più subdola diplomazia del "bastone e la carota" (più il primo che la seconda, verosimilmente: più minacce neanche tanto velate, che sincera cooperazione con l'unico alleato rimasto agli USA in Medio Oriente). Abbas intende giocare le sue carte per ottenere il massimo possibile. Tanto, per emulare il gesto spettacolare di Arafat c'è sempre tempo; e poi i giornali non esiteranno a puntare il dito contro il "perfido sionista" sempre con l'elmetto in testa.
Ma il giochetto di Abu Mazen è stato ben inteso dal governo israeliano. Netanyahu non si è fatto intimidire - notoriamente non aspira al Nobel per la Pace, a differenza di Kerry, che evidentemente non ha mai perdonato ad Obama l'essersi insediato su una poltrona che nel 2004 avrebbe potuto essere sua - e ha chiarito che misure unilaterali da parte di Ramallah, saranno trattate con analoghe mosse unilaterali. Abu Mazen sa bene che non può tirare la corda con Gerusalemme: che riscuote i tributi nei territori palestinesi per conto dell'ANP, garantisce con le sue forze di sicurezza la stessa incolumità della dirigenza palestinese in ampie zone del West Bank, e - particolare non trascurabile - consente generose rimesse valutarie da parte dei sempre più palestinesi che vanno a lavorare ogni giorno nello stato ebraico.
Ancor più esplicito è stato Naftali Bennett, ministro dell'Economia di Gerusalemme e astro nascente della politica israeliana. Il leader di "Casa Ebraica" ha realizzato che la miglior difesa è l'attacco: la minaccia palestinese di trascinare Israele davanti al Tribunale Penale Internazionale dell'Aja lascia indifferenti, dal momento che più volte Stati Uniti e Regno Unito hanno subito analogo trattamento, e non per questo Londra o Washington hanno dovuto rinunciare ai territori di cui sono capitale.
Casomai, è l'argomentazione spettacolare di Bennett, dovrebbe essere Abu Mazen a temere di subire analogo trattamento. E questo per due fondati motivi: anzitutto per gli atti di guerra quasi quotidiana che i palestinesi scatenano nei confronti della popolazione civile dell'Israele meridionale. Un crimine di guerra, non c'è dubbio. E conta poco il fatto che a porre in essere questi attentati sia Hamas, o la Jihad Islamica, o il PRC, di stanza a Gaza: affermare che a colpire è Hamas e non i palestinesi, equivale a concludere che è il partito della signora Livni a condurre le trattative di pace, e non Israele. In secondo luogo Hamas è un movimento politico che agisce a Gaza sotto l'ombrello dell'ANP, da cui riceve ogni mese milioni per il mantenimento della sua burocrazia. Il legame stretto che nella sostanza esiste fra Gaza e Ramallah, è testimoniato infine dalla richiesta di questi giorni di Abu Mazen, di rimuovere il blocco israeliano al largo delle coste di Gaza: un'assunzione di patrocinio che in effetti conferma l'unicità palestinese, con Ramallah che dunque non può non definirsi immune da responsabilità per razzi e missili che quasi ogni giorno bersagliano un milione di persone innocenti.
La seconda considerazione è legata agli ingenti mezzi finanziari che Ramallah destina ai terroristi e alle rispettive famiglie, durante e dopo la detenzione nelle carceri israeliane. Si tratta di terroristi che hanno attentato, talvolta reiteratamente, alle vite di uomini, donne e bambini inermi; e che ricevono un sussidio crescente in funzione della gravità del reato commesso o tentato. Soltanto lo scorso mese l'ANP ha versato l'equivalente di 74 milioni di dollari, pur denunciando uno spaventoso debito pubblico di quasi 5 miliardi di dollari. Senza considerare l'intitolazione di strade, piazze e luoghi pubblici a terroristi incalliti, la celebrazione continua di Hitler e del nazismo, l'incitamento all'odio che sgorba dai libri di testo adottati dalle scuole palestinesi, e illavaggio del cervello che bambini e ragazzi subiscono dalla "TV di stato" palestinese. Crimini di guerra che inchioderebbero Abu Mazen e i palestinesi, se fossero trascinati alla Corte di Giustizia dell'Aja.

Oltretutto, è realistica la minaccia palestinese di pretendere la condanna di Gerusalemme per un simile reato? al di là della spettacolarità dell'accusa, la sua fondatezza è lungi dall'essere dimostrata. Come ha spiegato argutamente una analisi ospitata venerdì sul Jerusalem Post, «da un lato ci sono effettivi impedimenti a perseguire penalmente un singolo cittadino israeliano; dall'altro non sarebbe possibile applicare una legge penale con effetto retroattivo; in riferimento alle Operazioni Piombo Fuso e Pilastro di Difesa». I palestinesi percorsero questa strada già nel 2009, ma tre anni dopo il TPI chiarì che l'iniziativa non poteva essere accolta, dal momento che non era formulata da uno stato riconosciuto come tale; ammettendo implicitamente che una simile richiesta avrebbe potuto essere accolta qualora a presentarla fosse stato uno "stato di Palestina".
Anche oggi, con l'adesione dell'ANP all'ONU in qualità di "stato non membro", sussistono non pochi dubbi fra i giuristi, senza contare che Israele potrebbe reagire a sua volta accusando i palestinesi di crimini di guerra; e ne avrebbero ben donde. C'è un altro aspetto sostanziale, sollevato da John Whitbeck, giurista di fama internazionale che da tempo collabora con i palestinesi: le istanze palestinesi potrebbero risalire nel tempo fino al 29 novembre 2012, quando l'ANP è stata ammessa all'ONU seppur non pienamente. Questo perché soltanto le nazioni che godevano di riconoscimento statuale nel 2002, quando lo Statuto di Roma ha istituito il TPI, possono aderire a questo organismo, e godere di efficacia retroattiva nelle loro istanze.
In parole povere, anche se il proposito velato di Abu Mazen di citare Israele davanti alla Corte Penale Internazionale fosse reale e non un bluff, verosimilmente non ci sarebbe alcuna possibilità tecnica di citare lo stato ebraico per i fatti del 2008-2009 e del 14-21 novembre 2012; sempreché ovviamente sia possibile produrre argomentazioni e prove a sostegno di questa accusa. E avendo ben presente che Gerusalemme avrebbe diversi elementi a sostegno dell'accusa di crimini di guerra nei confronti della leadership palestinese. Che deve ben guardarsi dal portare fino alle estreme conseguenze il suo spregiudicato proposito: a Gerusalemme sono meno ingenui di quanto siano a Washington.

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