mercoledì 4 aprile 2012

Israele: un esempio di integrazione nel mondo del lavoro


Israele è senza dubbio un altro mondo, da cui l'Occidente dovrebbe prendere spunto (le residue speranze di rappresentare un modello per il resto del Medio Oriente sono state spazzate via dall'oscurantismo promesso agli arabi da una sciagurata e mal interpretata "primavera"). Non solo lo stato ebraico spicca per crescita economica che ha ridotto ai minimi storici il tasso di disoccupazione, al punto da fregiare il governatore della Bank of Israel come migliore responsabile della politica monetaria nazionale al mondo. Ma si distigue per la profondità con cui favorisce l'integrazione nel tessuto economico di tutta la società, senza distinzione di sesso o di razza.
Fa notizia - ma non sorprende chi conosce questo stato - resa nota questa mattina dalla stessa Bank of Israel, secondo cui il tasso di partecipazione delle donne arabe alla forza lavoro è raddoppiato negli ultimi quarant'anni, pur mostrando ancora ritardo rispetto al tasso di partecipazione delle donne ebree. Secondo lo studio, il 20% delle donne arabe è impiegata in Israele: il doppio, appunto, rispetto al 10% del 1970. La differenza rispetto alla maggiore partecipazione del resto della popolazione è spiegata con il gap di istruzione e con un retaggio culturale che ancora scoraggia nel mondo arabo l'impegno femminile nel mercato del lavoro.
Se ancora molto resta da fare da queste parti - ogni stato purtroppo ha il suo Mezzogiorno - l'integrazione attiva della donna nella società rimane un miraggio nel mondo arabo. Spiace constatare la sostanziale complicità dei media occidentali, sempre pronti a rilevare fenomeni di folklore dello stato israeliano, a condizione che facciano apparire Gerusalemme e dintorni sotto una luce grottesca; e sempre lesti a rimuovere dalle prime pagine dei giornali - e spesso anche dalle ultime - notizie di carattere generale che ristabiliscono una rappresentazione veritiera del conflitto arabo-israeliano.

E' il caso del pronunciamento di ieri della Corte di Giustizia Internazionale (ICC), che ha rigettato il ricorso dell'Autorità Palestinese contro lo stato ebraico, il quale si sarebbe macchiato di non meglio specificati "crimini di guerra" nell'operazione Piombo Fuso nella Striscia di Gaza a cavallo fra il 2008 e il 2009. Quell'operazione provocò una certa condanna da parte del mondo occidentale, ingannato da una astuta propaganda della stampa araba. Le Nazioni Unite promossero un'inchiesta, affidata al giudice sudafricano Goldstone, il quale emise una frettolosa quanto vergognosa condanna, che in seguito ritrasse imbarazzato dalle colonne del New York Times: «se avessi saputo ciò che so oggi, non avrei emesso quel rapporto», ammise tardivamente Goldstone. Frustrata dalla mancata condanna della legittima iniziativa israeliana, la leadership palestinese di stanza a Ramallah ha sollecitato l'intervento della ICC, la quale però ha rilevato di non avere alcuna giurisdizione, in quanto l'entità agente non può configurarsi come uno stato.
Ci si aspetterebbe un mea culpa da parte della stampa occidentale, che a suo tempo enfatizzò l'iniziativa velleitaria di Abu Mazen. Dubito che ciò avverrà. Spero che quantomeno questa ennesimo monito ad iniziative unilaterali estemporanee induca la leadership palestinese a tornare al tavolo dei negoziati, unica strada verso il mutuo riconoscimento. E' tempo che nasca uno stato palestinese; a condizione che i palestinesi lo vogliano.

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