martedì 27 settembre 2011

Gerusalemme dovrebbe fidarsi di Abu Mazen?



Sorvoliamo sul fatto che il presidente dell'Autorità Palestinese sia decaduto da un paio di anni, non essendosi tenute le elezioni a Ramallah (forse per il timore di una nuova cocente vittoria di Hamas, dopo quella di Gaza); sorvoliamo sulla tesi di laurea negazionista con cui il leader palestinese ha completato i suoi studi; e sorvoliamo pure sulla figura rappresentativa portata al Palazzo di Vetro (Latifa Abu Hmeid, madre di otto figli; tutte canaglie della peggior specie) da Muhammed Abbas...
Il fatto è che Abu Mazen non ci sente. La stessa ONU, gli Stati Uniti del premio Nobel per la pace Barack Obama, l'Unione Europea senza i cui finanziamenti il progetto palestinese nato dagli accordi di pace di Oslo sarebbe morto nella culla; persino la Russia hanno imposto al leader palestinese di sedersi nuovamente al tavolo dei negoziati con Israele, senza porre condizioni di sorta.
E invece no. Abu Mazen chiede che Israele blocchi l'attività edilizia nei territori contesi, e accetti di tornare ai confini armistiziali del 1949, rimasti in essere fino a prima della Guerra dei Sei Giorni del 1967. Una pretesa un po' fuoriluogo per parlare di negoziati, che teoricamente contemplano che due persone si seggano ad un tavolo e discutano fino allo sfinimento, prima di giungere a conclusioni e concessioni reciproche.

Anche per un attimo facendo torto alla logica, e accettando condizioni per poter discutere (mah!...), farebbe bene Israele a fidarsi?
Vediamo un po': Israele si è ritirato dal Sinai, occupato dopo la Guerra dei Sei Giorni, in ossequio agli accordi di pace con l'Egitto. E la penisola egiziana oggi è luogo di scorribande dei commando di terroristi palestinesi, che di recente hanno compiuto un attentato ai danni di un autobus che si recava presso la città turistica israeliana di Eilat. E c'è chi sostiene che si vada ormai trasformando in un feudo di Al Qaeda.
Nel 2005 si è ritirato unilateralmente, senza porre condizioni, da Gaza, e le attività industriali e le serre sono state spazzate via per costruire bunker e trincee dai quali partono quotidianamente attacchi nei confronti delle città meridionali di Israele.
Ha accettato la nascita di un embrione di stato palestinese in Cisgiordania; e ha dovuto accettare il conto di diverse centinaia di morti, vittime dei terroristi palestinesi che si facevano esplodere per le strade, nei bar e nelle piazze, prima che fosse eretta la barriera che separa Israele dalla Cisgiordania (che ha avuto il merito di dare tanto lavoro ai tribunali internazionali politicamente corretti, oltre a ridurre il crudele conteggio delle vittime civili della follia omicida palestinese).

Abu Mazen chiede come condizione per accettare di sedersi al tavolo delle trattative, l'accettazione di confini che renderebbero lo stato israeliano nuovamente vulnerabile agli attacchi dei nemici. Non si sbilancia in alcun modo sul riconoscimento di Israele come stato degli ebrei, non pensa minimamente di tornare a fare di Gerusalemme Est un pisciatoio, come è stato dal 1948 al 1967 durante l'occupazione giordana, e non intende rinunciare alla deflagrazione della bomba demografica che sarebbe rappresentata dalla minaccia di far entrare in Israele i milioni di discendenti degli israeliani arabi che furono convinti nel 1948 a lasciare le loro case dagli stessi stati arabi confinanti.
E' proprio il caso di firmare la condanna a morte con le proprie mani?

Gerusalemme è la capitale di Israele. Ciò non esclude che siano liberamente professate tutte le religioni monoteiste: inclusa quella islamica, con i fedeli che hanno libero e sicuro accesso ai luoghi sacri. Il governo israeliano in passato ha garantito la giurisdizione palestinese sul 97% dei territori contesi, offrendo in cambio per il residuo 3% (abitato da decenni da coloni) territori israeliani. Perché Abu Mazen non accetta di sedersi ad un tavolo per discutere di pace e prosperità, senza porre condizioni? tutto sarà discutibile: la piena accessibilità ai luoghi sacri, gli insediamenti, il futuro stato di Palestina, la possibilità di stringere proficui accordi commerciali ed economici con Israele, in pieno boom economico. Ma puntare i piedi rafforza la sensazione che la leadership palestinese è interessata a tutto, tranne che a garantire un futuro al suo popolo.

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