venerdì 20 maggio 2011

Un Obama piccolo piccolo



Davvero il presidente americano appare mediocre e senza una strategia. Compie spostamenti tattici da un lato all'altro. Da' ascolto ora alla Clinton (che per mesi ha insistito sulla "volontà riformatrice" del regime di Assad, salvo capitolare di fronte al massacro di centinaia di siriani e al ritrovamento delle fosse comuni), ora ai falchi, che hanno fatto notare che i morti libici esigevano una azione immediata, senza tentennamenti.

Mortifica l'alleato israeliano, dimenticando l'impegno già preso ufficialmente dagli Stati Uniti a proposito dei confini e della sicurezza israeliani, e cedendo alle suggestioni delle piazze, sapientemente orientate dai regimi dispotici che vogliono distruggere Israele.

Il fatto che Abu Mazen sia meno contrariato del governo israeliano e di Hamas conta ben poco, visto che l'ANP si è legata mani e piedi ai fondamentalisti islamici che governano la Striscia di Gaza.
Il fatto che alcuni giornali oggi in edicola mettano sullo stesso piano il rifiuto di Hamas - una organizzazione terroristica che controlla col terrore la Striscia di Gaza (e presto anche la Cisgiordania) e che promette di voler distruggere Israele - e quello del governo Netanyahu, legittimamente e democraticamente eletto, la dice lunga sulla clamorosa miopia di alcuni commentatori.

Come rileva lucidamente Carlo Panella, è un discorso retorico ma privo di contenuti e scarsamente efficace, quello pronunciato ieri da Barack Hussein Obama dopo l'ormai "celebre" discorso del Cairo. Prima degli stessi americani, chi vive in Medio Oriente ha capito da tempo di avere a che fare con un bluff, irrilevante sul piano politico. Carter era più efficace, ed è tutto dire.

Pensare che Gerusalemme possa essere di nuovo divisa in due, con il Muro del Pianto (che si trova nella città vecchia; "Gerusalemme Est", si diceva una volta...) che tornerebbe ad esser un pisciatoio, come lo è stato sotto l'occupazione araba negli anni compresi fra le due guerre del 1948 e del 1967, è semplicemente assurdo, oltre che oltraggioso per tutti coloro i quali credono ad un Dio.

Per non parlare della risposta fermamente negativa di Hamas, che quantomeno un merito ce l'ha: evidenzia che il problema non è quello di qualche chilometro quadrato della Cisgiordania in cui abitano gli ebrei. No, la "dirigenza" palestinese non è sensibile al problema degli "insediamenti": vuole tutta Israele, "dal Giordano al mare", gettando nel Mediterraneo tutti gli israeliani che legittimamente la popolano dal 1948. Con buona pace delle anime belle occidentali che ancora credono alle favole...


Carlo Panella, " Barack genio della retorica e dilettante della politica" (LIBERO):

Barack Obama è riuscito a scontentare tutti: israeliani come palestinesi. Il suo “secondo discorso all’Islam” ha dimostrato ancora una volta che il presidente americano è tanto bravo a toccare i tasti della retorica, quanto incapace di affrontare con chiarezza le crisi internazionali reali, a partire da quella israelo palestinese. Da questa seconda parte del suo discorso è dunque indispensabile partire, non solo per la immediata reazione negativa dell’una come dell’altra parte, ma anche perché per l’Islam la questione palestinese è la cartina di tornasole per verificare i reali comportamenti degli Usa. Obama ha dunque scontentato la parte israeliana perché ha affermato che «Israele deve tornare ai confini del 1967». Frase che Obama ha voluto oscura e generica – per non prendere posizione sui nodi della trattativa - e che suona inaccettabile per Gerusalemme. I confini del 1967, infatti, separavano non solo la Cisgiordania e Gaza da Israele, ma anche dividevano in modo inaccettabile Gerusalemme stessa. Il Muro del Pianto faceva parte della Gerusalemme araba e gli ebrei non potevano neanche recarvisi a pregare. È evidente che lo status di Gerusalemme deve essere ancora oggetto di una complessa trattativa, ed è chiaro che Obama avrebbe dovuto dire qualche cosa nel merito. Ma si è guardato bene dal affrontare questo nodo ineludibile. Non solo, gli Usa hanno sempre sostenuto che i confini tra Israele e Palestina devono essere oggetto di modifiche e di compensazioni e Netanyahu ha avuto buon gioco per ricordare a Obama che ha smentito solenni posizioni ufficiali dei suoi predecessori. Obama è però riuscito a creare imbarazzo anche ad Abu Mazen, perché ha ribadito la necessità di «preservare la sicurezza di Israele e di riconoscerne il diritto a esistere». Ma Abu Mazen sta varando un governo di unità nazionale con Hamas che non è affatto disposta a accettare queste due condizioni, tanto che i suoi leader hanno immediatamente rigettato con sdegno «l’indebita ingerenza americana», ribadendo: «Noi comunque non accettiamo la politica di Obama e non accettiamo la sua richiesta di riconoscere quello che lui ha definito lo Stato ebraico». Ora Abu Mazen si trova in mezzo al guado. Aulica, la prima parte del discorso in cui Obama ha preso atto della svolta imposta nei Paesi arabi dalle recenti rivolte. Avrebbe fatto meglio a assumere questa posizione anche quando tacque a fronte della rivolta dell’Onda Verde iraniana, ma comunque è un riconoscimento positivo. Con un limite. A fronte della repressione messa in atto dal regime siriano, la più feroce mai vista, Obama ha usato di nuovo una frase ambigua: «Assad faccia le riforme o lasci il potere». Ma è chiaro che Assad non ha nessuna intenzione di fare riforme nel momento in cui riempie le fosse comuni dei corpi degli oppositori falciati dalle sue milizie. E per costringerlo a lasciare il potere c’è bisogno di una pressione anche degli Usa che non c’è stata, perché, sino a pochi giorni fa, l’amministrazione Obama definiva Assad «un riformista». E che ora è tardiva.

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